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L'arrivo dei persiani e il difficile futuro dell'Unione Europea
Beppe Severgnini,
Un po' per caso e un po' per libri, sono in giro tra Bruxelles, il
Lussemburgo e la Germania tropicale (bello vedere i tedeschi seminudi e felici a casa loro). Giorni fa ero in Polonia (Cracovia è la nuova "città europea dei ragazzi"; ci sono più Erasmus che passeri, nelle vie del centro).
Il futuro dell'Unione Europea si decide in questi posti, in queste ore. L'avrete letto o sentito: la presidenza di turno tedesca tornerà alla carica sulla Costituzione, che nessuno chiama più così. Approvata in 18 Paesi, è stata infatti cassata dai referendum francese e olandese nel 2005. Stavolta si parla (sottovoce) di "mini-trattato". Obiettivo: dare alla nuova UE (27 Paesi) regole nuove. Quelle attuali non funzionano più.
L'idea di introdurre la carica di presidente del Consiglio europeo non piace agli inglesi (ma se fosse Tonino Blair?). A Londra storcono il naso anche sul ministro degli esteri comune e sull'adozione di una "carta dei diritti fondamentali". Ma i bravi inglesi sono nasostorcitori professionali, e non ci facciamo più caso. Il problema sono i polacchi.
L'attuale sistema di voto, infatti, va aggiornato, in modo da facilitare le decisioni a maggioranza: una proposta passerà se votata dal 55% degli Stati che rappresentano il 65% della popolazione. Tutti d' accordo, meno la Polonia, governata dai gemelli Kaczynski. Lech è presidente; Jaroslaw primo ministro. Li differenzia un neo, li accomuna il cattivo carattere.
Oggi la Polonia (membro dal 2004, 39m di abitanti) ha 27 voti; la Germania (membro dal 1957, 82m d'abitanti) ne ha 29. A Varsavia sanno che bisogna cambiare, ma pretendono un nuovo meccanismo di calcolo dei voti, a loro favorevole. Se non verranno accontentati, minacciano di sabotare il vertice. Il presidente della Commissione, Barroso, è furioso. I tedeschi - dal governo ai giornali - sono sull'orlo di una crisi di nervi. A Colonia ho letto un titolo: "Polen nerven - I polacchi rompono".
Chissà: forse i tedeschi non ci sanno fare coi vicini orientali. Di sicuro il duo Kaczynski è difficile quanto i fratelli Dalton. Ma c'è di più: ed è colpa nostra.
Mettiamola così: siamo più commossi noi all'ovest, pensando ai popoli dell'est tornati nella "casa comune europea", che i diretti interessati. Varsavia, Praga e Budapest (ma anche le capitali baltiche e balcaniche) emanano insofferenza e rivendicazioni. Eppure ricevono aiuti, aperture commerciali, possibilità di lavoro. Ingrati o delusi?
La risposta sta nelle frasi con cui l'ungherese Imre Kertész, premio Nobel per la letteratura nel 2002, ha chiuso l'intervento all'Accademia delle Arti a Berlino, giorni fa. "Quando i Paesi dell'Europa dell'Est allungarono le braccia in cerca di sostegno verso le democrazie dell' Europa occidentale, ottennero solo una stretta di mano e una pacca sulle spalle (...). Non c'è dubbio che all'inizio del XXI secolo, dal punto di vista etico, ci troviamo abbandonati a noi stessi. Una civiltà che non dichiara apertamente i suoi valori o li pianta in asso procede verso il declino (...). Quando penso alla futura Europa la immagino forte, sicura di sé, sempre pronta a trattare, mai opportunistica. Non dimentichiamo che dopotutto l'Europa è nata da una decisione eroica: la decisione di Atene di opporsi ai persiani".
Domanda: c'è bisogno che arrivino i persiani, per capire che è bello, giusto e utile stare insieme? Non possiamo scriverlo chiaro, e ripeterlo spesso, invece d'affidarlo ai comunicati finali dei vertici europei, che sembrano fasulli come i sorrisi nelle fotografie?