Sono durissimi i commenti degli osservatori internazionali in merito alla crisi di governo italiana. Giudizi che mettono in evidenza la totale inaffidabilitŕ della nostra politica. Italia patrimonio mondiale, perla del Mediterraneo come ha fatto a cadere cosě in basso? Voi cosa ne pensate di questi amministratori, da noi lautamente pagati? Cosa dobbiamo fare ora? Chi dobbiamo eleggere? Si può essere felici perché l’economia non cresce? «Certo che no!», risponderebbe qualsiasi persona fermata a caso per la strada. Identica sarebbe la posizione di imprenditori e operai, finanzieri e impiegati, professori e contadini. Persino la politica, sconquassata come non mai da fratture e divisioni, ritroverebbe unità nel respingere la domanda come una provocazione assurda. Quello della crescita del Pil (il prodotto interno lordo) è forse l’ultimo vero dogma dell’età contemporanea, l’unico che nessuno aveva ancora osato mettere seriamente in discussione. Certo ne erano già stati sottolineati limiti e pericoli: il benessere ridotto alla misura della quantità delle merci prodotte, per un verso; e la capacità di tenuta dell’ambiente naturale a fronte di un’economia protesa alla crescita infinita, per l’altro. Ma che venisse esplicitamente posta la questione della diminuzione del Pil ancora non era accaduto. Lo ha fatto Maurizio Pallante nel libro La decrescita felice – un titolo che a molti suonerà come un ossimoro – stampato dagli Editori Riuniti.
Pallante è uno che parla chiaro. Ha il gusto della provocazione, ma anche il pallino della concretezza. Non si limita a criticare, propone anche. Il suo libro è, insieme, una lucida lettura delle perversioni e delle contraddizioni della nostra società e un manuale di consigli pratici da applicare nella vita quotidiana. Dall’analisi di concetti-chiave della cultura occidentale – innovazione e progresso – all’autoproduzione dello yogurt, in un libro che si legge d’un fiato.
La tesi centrale de La decrescita felice è che l’economia basata sulla crescita del Pil rappresenta un inganno: pretende di rispecchiare il benessere di una società, ma in realtà si limita a calcolare la quantità delle merci prodotte. E non sempre crescita della produzione e benessere vanno d’accordo. Rimanere bloccati nel traffico fa crescere la quantità di carburante consumato, ma certo non migliora la qualità della vita. Lo stesso vale per le calamità naturali: la ricostruzione di New Orleans darà una bella spinta all’economia statunitense, ma è facile immaginare che gli abitanti della città avrebbero fatto volentieri a meno di Katrina. Il punto è che l’economia odierna non distingue più tra beni e merci, ignora gli uni e pone esclusiva attenzione sulle altre. Quel che conta sono le cose comprate e vendute, tutto il resto non esiste: gli stessi pomodori di uno stesso orto fanno salire il Pil se immessi sul mercato, ma non esistono se finiscono sulla tavola di chi se li è coltivati. La logica cui è improntato il sistema attuale è quella della continua crescita delle merci prodotte. Dire che il Pil non cresce è diventato un tabù: quando le cose vanno male si dice che «la crescita è negativa». Conseguenza inevitabile di tale impostazione è il progressivo inserimento di quasi ogni sfera della vita sociale nell’ambito dei circuiti mercantili: se l’imperativo è quello della continua crescita della produzione, allora si devono conquistare sempre nuove sfere di mercato, perché quelle tradizionali prima o poi raggiungono la saturazione. Ecco allora che anche i bisogni fino a pochi decenni fa assolti in famiglia – si pensi alla cura dei bambini e degli anziani – trovano ora soddisfazione sul mercato. Poco alla volta la logica mercantile ha rimodellato le stesse strutture sociali a misura delle proprie esigenze: quel di cui ha bisogno è di una massa di individui isolati che sanno solo consumare, perché incapaci di far fronte ad alcuna delle proprie necessità né personalmente né tramite la propria sfera di relazioni.
Pallante porta alle estreme conseguenze il ragionamento, applicando la sua chiave di lettura al sottosviluppo, alla disoccupazione, allo stato sociale, al femminismo, al Sessantotto, all’arte contemporanea. Qualcuno potrà rimanerne a tratti sconcertato, tante sono le certezze rimesse in discussione. Altri potranno provare fastidio per un libro che è contemporaneamente rivoluzionario e reazionario, attacca la destra e la sinistra, propugna la difesa dell’ambiente e se la prende con gli ecologisti, reclama la riscoperta delle conoscenze tradizionali e sostiene la capillare diffusione delle più avanzate tecnologie energetiche. Sembrano aspetti inconciliabili; e invece il libro sorprende per la sua rigorosa coerenza, la linearità delle argomentazioni, la limpidezza del ragionamento. Coerenza e limpidezza che si ritrovano anche nella parte propositiva. L’idea è quella di tagliare l’erba sotto i piedi al sistema economico, escludendo il mercato ogniqualvolta sia possibile soddisfare i propri bisogni autonomamente, tramite l’autoproduzione, o instaurando rapporti con gli altri, attraverso scambi non mercantili basati sul dono e sulla reciprocità. Diversamente da molti di coloro che si occupano di questi temi, Pallante non è un moralista: pur riconoscendo il valore delle scelte ispirate alla sobrietà, le sue idee non si basano sui buoni sentimenti. Il libro non ci chiede di rinunciare a una parte del nostro benessere, ma, al contrario, ci indica la strada per vivere meglio, svelando l’inganno di un’economia che spaccia la quantità per la qualità. Comprare di meno vuol dire far diminuire il Pil, ma non per forza significa avere di meno: basta prodursi da sé o scambiare con altri autoproduttori quel che non si compra più. E sappiamo tutti che una marmellata buona come quella della nonna di certo non la vendono al supermercato.